Scriveva Tocqueville nel 1830: "vi sono in Europa certe nazioni in cui l'abitante si considera come una specie di colono indifferente al destino del luogo in cui abita. Questo disinteresse si spinge tanto in là che se la sua sicurezza o quella dei suoi figli è compromessa, invece di cercare di allontanare il pericolo, egli incrocia le braccia in attesa che l'intera nazione venga in suo aiuto".
Da allora molte cose sono cambiate; non però il fatto che continuiamo a chiedere molto allo Stato: che diminuisca le tasse, che intervenga per contenere gli aumenti dei prezzi, che ci liberi dalle montagne di rifiuti che ci assediano, che ci dia un lavoro adeguatamente retribuito, che ci consenta di andare in pensione all'età che vogliamo; che insomma cancelli dal nostro vocabolario civile la parola "doveri" e la sostituisca con il ben più invitante "diritti".
E così oggi viviamo un'epoca in cui siamo tutti sensibilissimi alla difesa della nostra privacy, della nostra libertà, della nostra individualità; molto meno ai concetti di responsabilità e di legalità.
Un'epoca di accaparramento, di egoismo, di spreco, di disinteresse per la cosa pubblica.
Non era questa la società che i nostri Padri Costituenti avevano immaginato.
La Costituzione ha riconosciuto i diritti inviolabili dell'uomo ma ha chiesto ai cittadini altrettanto in cambio: partecipazione, responsabilità, coscienza della necessità di un loro impegno quotidiano per difendere la democrazia dal suo peggiore nemico, l'indifferenza.
Senza questo scambio fecondo, la Costituzione rischia di tramutarsi in una promessa vana: la democrazia, infatti, non sopravvive a cittadini che non sanno fare alcun sacrificio per tenerla viva.
Vi.