«Una domanda interpella profondamente la nostra responsabilità: quale civiltà si imporrà nel futuro del pianeta? Dipende infatti da noi se sarà la civiltà dell'amore, come amava chiamarla Paolo VI, oppure la civiltà - che più giustamente si dovrebbe chiamare "inciviltà" - dell'individualismo, dell'utilitarismo, degli interessi contrapposti, dei nazionalismi esasperati, degli egoismi eretti a sistema. La Chiesa sente il bisogno di invitare quanti hanno veramente a cuore le sorti dell'uomo e della civiltà a mettere insieme le proprie risorse e il proprio impegno, per la costruzione della civiltà dell'amore» (Giovanni Paolo II, 13 febbraio 1994).
Quel monito oggi si rivela profetico. Il mondo sta scivolando pericolosamente verso l'«inciviltà» dell'individualismo e dell'egoismo eretti a sistema. Perciò è necessario e urgente alzare forte la voce. Occorre rompere il silenzio impacciato di troppi, che oggi stanno zitti per acquiescenza o per diplomazia. È colpevole e irresponsabile fingere di non vedere.
Bisogna riflettere: 1) sulle cause e sui pericoli dello slittamento verso l'«inciviltà»; 2) sul dovere morale che tutti abbiamo di reagire; 3) sulla necessità di mettere insieme le proprie risorse e il proprio impegno e aprire un capitolo nuovo della storia.
Il progressivo deterioramento civile della situazione è sotto gli occhi di tutti. I fatti parlano da soli e sono inequivocabili. I problemi che affliggono il Paese non sono nati oggi; ce li trasciniamo da decenni. Nuova, però, è la «filosofia» con cui si affrontano, che produce effetti deleteri. È un fatto che siamo tutti condizionati dalla paura e dal bisogno di sicurezza; ma è ideologico addossarne la responsabilità solo all'uno o all'altro problema emergente. Nessuno nega che l'immigrazione «clandestina» porti con sé problematiche gravi, ma trasformarla - come si fa - nella causa di tutti i mali della società italiana significa affrontare il problema in modo ideologico e fuorviante. Introdurre il reato di ingresso e di soggiorno illegale, imporre tasse per ottenere il rilascio o il rinnovo del permesso di soggiorno, consentire ai medici di denunciare i pazienti stranieri senza documenti, ventilare l'ipotesi di classi separate nelle scuole, rifiutare agli stranieri i servizi sociali e i sussidi di disoccupazione garantiti agli italiani, sono tutte scelte che aggravano la situazione. Perché stupirsi poi se, in un clima inospitale e discriminatorio, si moltiplicano - da una parte e dall'altra - casi di violenza brutale, di intolleranza, di razzismo e di xenofobia? Se le città diventano sempre più invivibili e insicure? Come non accorgersi che inviare i soldati a pattugliare le strade e istituire ronde di «volontari per la sicurezza» (che ricordano troppo da vicino una omonima «milizia» di malfamata memoria) serve soltanto a esautorare le forze dell'ordine e ad avallare l'idea che è più efficace che i cittadini si facciano giustizia da sé? Così si scivola verso l'«inciviltà sociale».
Nello stesso tempo il falso presupposto che la legittimazione popolare (la maggioranza elettorale) sia criterio di legalità mina alla radice la nostra civiltà politica e giuridica e fa degenerare la democrazia in «autoritarismo». Infatti, il giudizio di legalità non spetta al popolo, ma alla magistratura. Non si può usare il potere legislativo per sottrarsi alla giustizia o per ridurre l'autonomia della funzione giudiziaria. Quando questo accade, l'effetto è devastante: si diffonde la sfiducia nello Stato e nelle sue istituzioni; s'incrina nei cittadini il senso civico e della legalità; si favorisce la corruzione pubblica e privata; s'insinua nell'opinione pubblica la convinzione che, dopotutto, il «fai da te» premia. Così si va verso l'«inciviltà politica».
Anche a livello istituzionale, la partecipazione democratica è soppiantata gradualmente da una sorta di presidenzialismo di fatto: chi ha il potere comanda (non «governa»); diviene allergico a ogni sorta di controllo e agli stessi contrappesi essenziali del sistema democratico (si tratti della magistratura o del Presidente della Repubblica); preferisce il ricorso a decreti legge e al voto di fiducia, esautorando di fatto il Parlamento e riducendolo al ruolo di notaio delle decisioni prese dal Governo; vede i dibattiti e le necessarie mediazioni della democrazia politica come un intralcio. La classe politica è cooptata dall'alto: si toglie ai cittadini la libertà di «eleggere» i propri rappresentanti e viene loro lasciata solo la possibilità di «ratificare» con il proprio voto liste confezionate dal vertice. E così si avanza verso l'«inciviltà istituzionale», in rotta di collisione con lo spirito (e a volte con la lettera) della nostra Costituzione. L'«antipolitica» cresce: non dice nulla che nelle elezioni politiche del 13-14 aprile 2008 l'astensione abbia superato i 10 milioni di cittadini (circa un italiano su 4) e nelle elezioni regionali in Abruzzo (14-15 novembre 2008) abbia raggiunto il 47%?
Perché accade questo? La ragione ultima è che il «pensiero unico» dominante, cioè la «filosofia» politica neoliberista, è in contrasto con i principi fondamentali della nostra civiltà e della Carta repubblicana: ridurre la persona a «individuo» cozza contro il «principio personalista»; la visione meramente «legalista» delle relazioni umane collide con il «principio solidarista»; l'«autoritarismo» è la negazione del «principio di partecipazione sussidiaria». Non è un caso quindi che - al di là dell'ossequio pubblico, dovuto e formale - si tenda a screditare la Costituzione (la si accusa di essere «di ispirazione sovietica»!) e si profilino all'orizzonte «riforme» (come il federalismo leghista, tendenzialmente secessionista e antisolidale, se non viene corretto) che la colpirebbero a morte.
Di fronte a scelte di civiltà destinate a incidere profondamente sulla vita delle persone, delle famiglie e della società, anziché dividersi tra credenti e non credenti e tra eredi delle diverse tradizioni riformiste, occorre dialogare, raccordare le «ragioni» degli uni e degli altri, incontrarsi per dare un'anima nuova alla convivenza civile e alla politica. La sfida dell'«inciviltà» si trasforma, dunque, in una grande opportunità di ripresa.
Occorre agire subito.
Bartolomeo Sorge – direttore “Aggiornamenti sociali”